IO ALLA FINE NON SO COSA SIA UNA BELLA FOTO.SO SOLO CHE VEDO COSE E LE DEVO FERMARE.E CHE A VOLTE HO QUALCOSA DA DIRE.ALTRE VOLTE, NO.


17.10.13

E poi, mentre piangi, arriva quel sonno che è come se qualcuno ti avesse tappato naso e bocca col classico fazzoletto imbevuto di cloroformio. 
Confusione, affaticamento e mal di testa. 
E poi nero. 
 E dormi per ore. 
O meglio, svieni per ora. 
Inghiottita da qualcosa di nero e vischioso. 
E sogni lui che ti dice: "Sere te lo dico io cos'è che non va..." 
E ti risvegli non capendo che giorno sia, che ora sia, se sia ora di andare a lavorare o di portare la creatura a scuola. 
E non sai se è mattina o pomeriggio o notte, se sia passata 1 ora o 100. 
Non sai se sia Ottobre o Maggio o Dicembre, se sei sul pianeta Terra o quello dal quale sei provenuta tu ma non ti ricordi più il nome. 
 Non vorrei ricordarmene più neanche uno di nome. 
 Nemmeno uno. 
 Incluso il mio. 
Vorrei non ricordare più niente. 
 Svegliarmi e per una volta non pensare a niente. 
 Accettare che quello è il luogo in cui mi sveglio. 
Accettare che quella sia l'ora. 
Accettare che quelle sono le cose che ho da fare. 
Accettare di fare quello che ci si aspetta da me. 
E basta.
 Cervello dalle sinapsi docili. 
 Nervi ricoperti e cuore in pace. 
Pelle più coriacea. 
 Un cuore senza parassita a mangiarselo lì in basso a sinistra. 

 E invece.



16.10.13

Pensavo di non finirci più qui. 
Agosto, Settembre, Ottobre. 
3 mesi. 
Proprio allo scadere dei 3 mesi. 
Si è riaperta la voragine dentro. 
All'improvviso si apre la botola sotto alle scarpe. 
E giù. 
Stomaco in gola. 
Eccolo il conato di delusione. 
Ecco il metro cubo di asfalto di strada troppo battuta che risale su e sfonda e sfascia e lacera e gratta e stride e sussurra freddo che no, che tu non ce la fai ancora, e cosa credi? farcela nei prossimi 3 mesi? 
3 mesi. 
 Sono solo 3 mesi per chiunque. 
90 inutili giorni. 
Ma per me sono come 3 decenni. 
 Come quei 3 minuti infiniti mentre aspetti che un medico ti dica come stai davvero. 
Come quei 3 minuti infiniti quando eri piccola e la mamma ti guardava e decideva se a scuola andavi o no. Come quei 3 minuti infiniti mentre aspetti che lui ti baci. 
3 decenni. Non sono 3 minuti. 
 Ma alla fine quei 3 minuti passano. 
E tu illividita e cianotica ci sei arrivata in fondo. 
E il medico ti dice che no, non stai poi così bene. 
E la mamma dice che ti dà un pacchetto di fazzoletti e vai che ce la fai. 
E lui poi tanto non ti bacia che sicuro c'è una meglio di te. 
 E poi passano quasi 3 mesi. 
E tu pensi che forse ce la fai. 
Ma no. Torni lì sotto al centro della terra. 
Scaraventata giù. 
Fa male tutto. 
 Fa male muoversi. 
Fa male respirare. 
Fa male guardare qualsiasi cosa. 
Fa male sentirvi. 
Sono passati 3 mesi e guardati. 
Sei di nuovo lì in terra. 

15.10.13

Quest'estate al mercato regalavano gattini. 
Come ogni Giovedì. 
La gente passa, emette un gridolino di tenerezza e va oltre. 
Era qualche anno che non avevo un gattino. Sempre avuti. 
 Jean-Pierre il gattone color mango. 
 Cherie la micia elegante color copertina scozzese. 
Romeo il gattone tigrato. 
 Stoosh il gatto indemoniato che sapeva sempre quando stavo piangendo e che amavo alla follia. 
 Mr Morris (The Seagull Killer) e Miss Molly (The AirScratcher) nel mio cottage in Inghilterra, neri come il fumo che ti si infila tra i capelli giù nella metro di Londra. 
 Simba il primo gattino di Miranda. 
 Sole, tutta bianca dal viso alieno sparita troppo presto (ma credo che in anni felini ne avesse 27). 
 Basta gattini che poi spariscono mi ero detta io. 
Troppe persone spariscono già nella vita. Basta anche i gattini. 
Che poi ti affezioni e poi un giorno ciao, non ci sono più. 
E invece una mattina di Luglio vado al mercato. 
Seguendo svogliatamente madre in assetto da casalinga agguerrita. 
E nella gabbietta c'erano due micette. 
Una bianca. Carina. 
Una nera con sfumature rosse strane e righe arancioni senza senso, come se un bimbo l'avesse scarabocchiata con un pennarello. 
Scheletrica. 
Occhi troppo grandi. 
Ma verdi come Oz. 
Immobile in un angolo. Bruttissima. 
Talmente brutta da disegnare tutta l'orbita in cielo, tornare indietro ed essere stupendevolmente e struggentemente meravigliosa. 
Ho pianto. 
"Signorina ma è sicura che vuole quella lì brutta? Ha avuto una madre vecchia poverina. Chissà se dura... La bianca sta meglio." 
"No. Perfavore. Voglio quella nera e brutta." 
 Dicono che gli animali domestici assomigliano sempre un po' al padrone. 
Lo dicono per i cani. Non so se vale per i gatti. 
 Si è nascosta da me per giorni. 
Piangeva. 
Non so nemmeno se mangiasse. 
Non riuscivo nemmeno a darle un nome. 
 Miranda l'ha intravista e mi ha chiesto tutta delusa: "Ma che razza di animale è quello?" 
Poi stop. 
Mi si è avvicinata. Si è fidata. 
 E ora quando mi sta in braccio mi guarda dritta negli occhi. 
Sarà una stupidaggine ma a me sembra sempre che mi dica grazie. 
O forse mi sussurra in silenzio solo quanto siamo simili. 
Brutte fuori. Ma forse qualcosa di bello dentro ce l'abbiamo. 
Se qualcuno si prende il tempo di sbirciare. 
 Noi ci siamo trovate. 
Noi ci vogliamo bene.




14.10.13

Mi hanno regalato una canzone. 
 E la respirazione si fa irregolare. 
Come se cercassi di alzarti e cedessero le ginocchia. 
 Una, due, tre volte. 
 Sfaldarsi e sciogliersi come una foglia di ottobre adagiata su lava fumante. 
 Piccoli buchini neri appaiono uniformi e consumano e bruciano la foglia lentamente. 
 Piccoli buchini che paiono stelle lontane in un cielo che si è ormai arreso. 
 E la foglia pare sorridere. 
Mentre viene polverizzata.

E finalmente, per qualche minuto, non ci sei più.


11.10.13

Ci sono momenti in cui l'occhio del ciclone si sposta. Il vento non ti prende più a strattoni e i capelli la smettono di finirti negli occhi e in bocca.
Momenti in cui le scosse del terremoto si quietano e tu resti lì immobile, trattieni il respiro e aspetti.
Momenti in cui l'onda non ti sommerge ma riesci a tenere la testa fuori dall'acqua e ti senti semplicemente galleggiare lì sotto al pelo dell'acqua, come se volassi, come un sacchetto di plastica sbattuto qua e là dal vento di ottobre.
Ottobre col suo odore di pozzanghera bassa.
Ottobre col suo sapore di pelucchi di sciarpa che si appiccicano alle labbra col burrocacao.
Ottobre che a toccarlo è umido e scivoloso come un bicchiere rimasto lì troppo tempo col ghiaccio semisciolto.

Versovunque. Guida sere, e lasciati riempire di musica. Sempre più forte. Mai rumorosa abbastanza per zittire davvero le voci, per non farti sentire i battiti del cuore così forti da assordare le orecchie e farti girare la testa.
Gira la testa.
Mangi poco, fumi troppo.
Poi smetto. Di fumare.
Poi ricomincio. A mangiare.
"Poi. Che ve l'ho promesso no?... No?"

Ho le calze sfilate e la felpa coi buchi.
Non ci vado a fare shopping che c'è troppa gente.
Vado anzi al mare. Ora che non c'è nessuno. E siamo solo io e il mare. Tanto ostile quanto felice di vedermi.
Più di tanta gente.
Il mare che mi guarda e sembra ridermi in faccia ad ogni onda lieve. Che sembra riprendere il respiro dopo ogni risata ogni volta che lo sento aggrapparsi con le unghie alla risacca.
Mi dice che sono piccola piccola. Antica ed embrione insieme. Mi dice che devo crescere. Che ancora un po' di tempo per non deformare il cuore completamente e irrimediabilmente ce l'ho ancora.
Mi siedo lì.
E lo ascolto. O almeno ci provo.
Ora che non c'è nessuno.

Sei sempre un passo indietro sere. Sei sempre un passo più in là.
Mai allineata.
Mai allacciata.
Certe cose non si allacceranno mai. Le vostre pillole color Tupperware a rilascio lento non ce l'hanno mai fatta.

Il rumore dell'otturatore che si chiude sì.
Una chitarra troppo alta sì.
Un sorso di qualcosa anche.
Un tiro da qualcosa.
Un verso da un libro antico come il mondo anche.

E poi è un'anno che non ci sei più.
E insomma.
Fa un po' schifo.

Da dentro a: D.O.A - Sleigh Bells

20.4.13

C'è una scalinata di marmo bianco.
Gradini bassi. Bianchissimi. Venature GrigioSquame.
Smussata. Levigata come la pelle di un'anguilla. E' quasi uno scivolo. Quasi trasparente come la testa di una medusa.
Eppure così stabile, con le sue fondamenta piantate salde come radici di quercia nel lago nel quale affonda.
Gli ultimi gradini, bianchi, come l'interno di una conchiglia, sono lambiti dolcemente dall'acqua.
Io, sempre seduta lì a metà.
Osservo chi, passando, la scala nemmeno la nota.
Osservo chi le dà un'occhiata fugace mentre rallenta appena passando, ma colto dalla paura va oltre.
Guardo e spero che chi fa qualche gradino scenda un po' più giù e mi raggiunga. Ma la scala è pericolosa.
Molti tornano semplicemente indietro.
Spero che chi invece si è fermato un pochino più in là faccia uno sforzo e si avvicini.
Ma raramente accade.
E poi guardo chi con grande coraggio è arrivato fino in fondo. Magari scivolando due o tre volte.
Per arrivare a metà so bene quanto mi sia fatta male. Quanti lividi.
Equilibrio precario e respiro compresso mentre cerco di trovare la concentrazione per scendere e finalmente mettere i piedi in quegli ultimi gradini baciati dall'acqua. E finalmente tuffarmi. Testa in giù. Fino al fondo.
E poi risalire.
Ma ancora non ce l'ho fatta.
Quindi guardo ammirata chi in acqua c'è già.
Chi ci è arrivato a caro prezzo.
Chi ci è arrivato e non solo è già in acqua e potrebbe nuotare libero, ma chi va sott'acqua e cerca di tirare su chi si è stancato.
Lo guardo risalire in superficie e respirare così forte che i suoi polmoni bruciati li sento io.
Lo guardo risalire e aprire a malapena gli occhi gonfi e turgidi.
Lo guardo mentre l'acqua apre una piccola voragine vorace e nera e se lo inghiotte.
E non lo vedo più.
Lì sotto con ogni muscolo teso fino a spezzarsi e saltare come la corda di una chitarra, ha preso il viso di lei fra le mani e la bacia. Le dona l'ossigeno che a grande fatica è andato a prendersi.
Lei rinviene e quando finalmente sgrana gli occhi c'è riconoscenza in essi. Ma solo un'attimo. Poi c'è stupore, quasi rimprovero, perchè ossigeno non ce n'è più. Lui non ne ha più.
E torna su. Ma il corpo è sempre più stanco. Le braccia fanno male.
Non solo perchè non riesce più a nuotare, ma anche perchè sono vuote. Vuote perchè sott'acqua non riesce ad abbracciarla come vorrebbe. Non si può. Sarebbe impossibile. Andrebbero tutti e due giù per sempre. E quell'ultimo abbraccio li vedrebbe sul fondo del lago, così belli, fatalmente sereni adagiati uno sull'altro sul fondale sabbioso in quell'ultimo abbraccio mortale.
Ma forse lei un'abbraccio non lo vuole più. Forse vuole solo ossigeno. Perchè in superficie lei non riesce a risalire.
Ma lui sì.
E continuerà a fare su e giù, costante e tenace perchè le cose le sa fare solo così.
E' meraviglioso però quando lo fa. Io lo sto guardando. Su e giù. Ritmico e ipnotico. Sono così belle e forti quelle braccia. E' così meraviglioso sentirlo mentre riprende aria. Brucia di vita lui. I cerchi concentrici che genera quando risale hanno origine da millemila punti elettrici sul portaspilli del suo cuore.
Io mi incanto a guardarlo.
Ammiro il suo coraggio.
E sorrido.
Ma con le lacrime.
Quanto ancora riuscirà a fare su e giù?
Fino a quando?
Inizio ad avere il terrore di non vederlo risalire più.
Inizio ad avere paura di non sentirlo respirare.
Inizio ad avere paura che lei lo trascini semplicemente giù quando deciderà che ossigeno non le serve più.
Io vorrei alzarmi dal mio gradino qui a metà.
Una canzone in testa. Occhi puntati verso l'acqua scura e densa.
Io scendo.
Forse se entro in acqua e respiro da sola capirà che nel lago si può anche nuotare insieme per un po'.
Ognuno coi suoi polmoni e il suo cuore, ma allo stesso tempo, allo stesso ritmo.
E un pezzetto di costa potremmo esplorarlo insieme. O forse no.
Ma ti prego.
Non andare più giù a dare ossigeno a chi forse nemmeno lo vuole.
Ti prego, allontanati.
Seguimi.
 

Da dentro a "Howard" dei June Miller.

30.3.13


Così, quasi per caso ti ritrovo. 
Come la chiave della cassetta della posta. Che si perde sempre. Poi la ritrovi e ti dici, uau, così non mi trituro più l'indice e il medio mentre cerco di recuperare le bollette attraverso la fessura. Ma recuperare le bollette attraverso la fessura lo fai lo stesso. Non è un grosso problema. E' solo un po' un fastidio. Però, insomma, se la chiave la trovi, tanto meglio. 
 Io ti ho ritrovato così per caso. Pensavo di non poter fare a meno di quella chiave. L'ho cercata chissà quanto. 
Testardamente. 
Disperatamente. 
 In un modo che non mi apparteneva davvero. In quei giorni di frenetica ricerca non mi riconoscevo. Girava la testa. Costole di vetro e sotto il vuoto. Il nulla. Nero. Vuoto e spugnoso. Apri la bocca per respirare e niente. Un blocco di marmo. 
Questo mi hai fatto. 
Così mi hai ridotta. 
Tu. 
Mi hai fatto male più di qualsiasi altra persona al mondo. Eri la mia dipendenza. E tu la dose me la negavi cinicamente se in quel momento non ti andava di farlo perchè avevi giochi migliori tra le mani. 
Sei stato spietato. 
 E per questo ti ho voluto. 
Perchè tale crudeltà mi ha fatto sentire viva quando ero morta. 
Mi hai donato la vita. 
Me l'hai fatta assaporare. Calda e salata giù per la gola.
 E poi me l'hai tolta. Così. 
 E mi hai relegato fuori dalle mura. Nella Geenna. Tra ossa di capra e di cane. A morire di sete. 
 Derisa e umiliata. 
 "Guardala come si è ridotta..." 
 E te ne sei andato via verso il prossimo diversivo usa e getta. 
 Usa e getta come gli abbracci che elargivi. 
 Mi hai abbandonata tra gemiti di dolore e blister di pasticche e benzodiazepine e alcool e mattonelle del bagno e vomito e dita puntate e sguardi nel vuoto e fissare la lavatrice seduta per terra e illeggibili occhi bui. Fine dei giochi.
 Game over. 
Peccato tu ti sia strategicamente dimenticato di farla passare in sovrimpressione la scritta. 
 Ma poi. 
 Poi. 
 Incredibilmente. 
Qualcuno ti fa sorridere. 
 Prima un pochino. Timidamente. Non è possibile ti dici. 
Poi non puoi fare a meno di sorridere sempre più. E poi boh. Me lo riprendo anche quel cuore lì in terra. 
 E me lo tengo qui. Che poi. Boh. Se. Forse. Ma non. Insomma. E' qui. 
 E così, quella chiave della posta l'ho ritrovata. 
Ma non mi serve. 
 Non mi serve proprio per niente. 
 Anzi mi dà fastidio. Dover tornare in casa solo per quella anche no. Vialetto lungo. Shaky ci ha fatto pure i bisogni. 
Non mi serve. 
Non la voglio. 
Ma che si perda. 
Ma che scompaia. 
 Io non la voglio più vedere. Riesco a prendere quel che mi serve anche senza. Anzi. Trovo di molto meglio. Molto meglio. 
 Cose che tu non sai nemmeno cosa siano. 
 Nemmeno potresti mai essere. 
 Cose che non t'immagini nemmeno. 
 A mai più. 
E niente auguri a te. 
Bastardo.
"Noi due, il cane, e l'universo." - Marina Abramovic

29.3.13

Non capita spesso di poter trovare una baia tranquilla nella quale poter rannichiarsi un'attimo e riposare. 
Una baia dove l'eco non torna indietro carico del peso di mille urla sorde cariche di nulla. 
Una baia dove i raggi del sole arrivano alla giusta angolazione. 
Caldi come un'abbraccio avvolgente, che stringe dolcemente e non costringe. 
Un'abbraccio dove i polmoni si espandono e si restringono con lo stesso ritmo delle oscillazioni di cavallucci marini cavalcati da sirene bambine. 
Uno dove il cuore batte e frulla nel petto come le ali dei gabbiani sulla tua testa. 
 Uno dove i pensieri fluiscono lenti, densi, e liberi come il pulsare elettrico di meduse iridate come libellule. Uno dove la voce dietro all'orecchio che ti sussurra che non ce la farai che nessuno capirà è zittita e tappata da alghe verdi smeraldo. 
 Smeraldo come la terra di Oz. 
La terra che tu sogni di poter vedere almeno una volta ogni tanto. 
Una dove i leoni non mordono. Dove quei bastardi che ti fanno soffrire col loro cuore di latta in realtà un giorno chiederanno scusa. Una dove gli uomini senza cervello non esistono, ma si fanno domande, provano a darsi risposte sincere e tentano di comprendere quel che vuoi dire senza spaventarsi. 
Una baia del genere, con un Sole così esiste. 
 E' rara, e non si vede, ma esiste. 
Devi attraversare tante scogliere per arrivarci. 
 Devi scivolare e tagliarti. 
Esiste. 
 Non perchè te l'hanno detto. 
Non perchè l'hai letto da qualche parte. 
Esiste perchè lo senti. 
Perchè tu sai che in qualche modo, chissà quando, alla fine, nonostante tutto ci arriverai. 
Perchè forse ci sei già stata. 
 Ma non lo ricordi. 
Ricordi solo che sorridevi. 
Io sorridevo.


28.3.13

Eccola. 
Sale su dallo stomaco. 
 Con le sue zampette di lucertola. 
 Su per l'esofago. 
Veloce con i suoi piccoli artigli ha facile presa. 
Tappa la gola. 
 Non respiro. 
Amaro in bocca. 
 Eccolo il conato di delusione. 
 Una spinta fortissima. 
Muscoli del ventre in tensione. 
E' come espellere una palla di cannone.
 Fuori. Fuori da me. 
Viscida e squamosa. 
Bruciano gli occhi. 
Non vedo più. 
Solo lacrime. 
Sempre e solo quelle. 
E le mani sporche di mascara e pezzi mezzi vivi di me. 
Impastate delle mie stesse ceneri sconfitte.

 

26.3.13

Non sono ferma.
Non proprio.
Sono in piedi. Ma ciondolo. Traballo.
Faccio due passi incerti. Poi prendo la rincorsa e ne faccio due o tre più sicuri.
Poi però inciampo. Cado. Prendo fiato. La gente intorno mi urta passando.
A fatica mi rialzo. E ciondolo di nuovo. E traballo di nuovo. E ricomincio il mio cammino incerto.
Verso cosa non riesco ancora a capirlo.
A tratti mi sembra di dirigermi verso una forma di equilibrio. Ma la sensazione è sempre precaria.
La catena invisibile legata alla caviglia torna a tirare.
Questa non è libertà vera.
E' avere un certo raggio d'azione, a volte più ampio a volte più limitato.
Posso anche prendere la rincorsa, ma inevitabilmente la catena arriverà al punto massimo di tensione.
E lo strattone all'indietro sarà forte.
Sobbalzerò.
Forse mi slogherò la caviglia. Non sarebbe la prima volta.
Singhiozzerò lì per terra perchè un'osso rotto fa male, ma il cuore spezzato ancora di più.
E un gesso per quello non esiste. E piangerò. E forse qualcuno passando mi accarezzerà i capelli per tirarmi su. Ma io glielo lascerò fare?
E così sto lì seduta ancora un pochino. Prendo un respiro profondo, raccolgo le forze e mi rialzo.
Verso dove?
E quanto lunga sarà la catena stavolta?
E lo strattone stavolta sarà così forte da spezzarmi anche il femore?
Ma soprattutto, l'energia della mia corsa disperata spezzerà anche la catena invisibile stavolta?
Lui può mettermi davanti tutti i meravigliosi ostacoli che vuole.
Tutte le fantastiche distrazioni che vuole.
Ma se decido di spostare il gancio della catena dalla caviglia al cuore, forse la catena potrei tranciarla di netto.
Con la sola forza delle lacrime che hanno già scorso il mio viso mille volte.
Con la sola forza della disperazione di mille addii. E di braccia vuote. Le mie braccia vuote.
Non sto ferma.
 Non sono ferma.


25.3.13

Non ho mai chiesto molto. 
Da piccola passavamo davanti alla vetrina del negozio di giocattoli e io guardavo in silenzio. 
Non chiedevo mai niente, anche se lì, proprio lì davanti a me c'era la Barbie che mi piaceva tanto. 
I miei mi dovevano portare dentro e forzarmi a scegliere qualcosa. Mi sembrava già allora di non meritarmi regali che non ero una bimba brava. Non riuscivo a far smettere i miei di litigare. Se non ci fossi stata forse non sarebbero stati nemmeno lì a litigare mi dicevo. 

Poi sono cresciuta. 
E ho continuato ad osservare senza mai prendere. 

"Sere voglio regalarti qualcosa di meraviglioso cosa vorresti?" "Io? Niente. Un libro forse." 

"Sere, vuoi solo birra e patatine? Costi poco." 

"Sere, voglio regalarti un diamante. Scegli quello che vuoi." "Io? Per me? Ma non serve!" 
"Certo che non serve. Te lo meriti e basta. Scegli." 
"Ok..." 

Ho continuato a non chiedere nulla. 
Neanche le attenzioni e il tempo di nessuno. Mi accontentavo di quello che mi veniva elargito. Mi accontentavo delle briciole perchè erano briciole meravigliose mi dicevo e vale la pena aspettare qui al freddo a stomaco vuoto se poi ottengo questo. Poi mi sono stancata. 
L'anoressia emotiva sfibra tanto quanto quella fisica. 
Ho iniziato a chiedere. 
E a non ottenere. Una Serena con richieste non va bene. Dà solo noia. Va allontanata. 
L'unica volta in cui ho chiesto qualcosa la reazione è stata violentemente negativa. Aggressivamente immediata. 
Io tanto stupita quanto scioccata ho cercato di incassare. 

Non mi va di chiedere niente. 
Eppure costo davvero poco. 
Non mi interessano le cose. Le macchine. I vestiti. Le scarpe. Le borse. Le unghie. I telefoni. Il computer. 
Mi interessano solo il tempo e le parole o i silenzi che lo riempono. 
Mi interessano solo gli sguardi di serenità e tranquillità tra due persone che si comprendono. 
Mi interessano solo le risate che fanno venire il mal di pancia. Mi interessano solo le lacrime per la gioia di aver visto o sentito qualcosa o per la disperazione di aver perso qualcosa o di aver bruciato qualcosa. 
Mi interessano solo abbracci dai quali non riesci ad allontanarti. 
Mi interessa solo la vertigine persa negli occhi di qualcuno di speciale. 
Mi interessa solo la prossima volta in cui ci fraintenderemo e ridendo ci ricapiremo.
Mi interessa solo la prossima foto in bianco e nero che farò. 
Mi interessa solo la prossima canzone che ascolterò. 
Mi interessa solo la prossima volta che lei riderà di pancia. 
Mi interessa solo la prossima volta che lei mi dirà "ti voglio bene mamma". 
E basta. 
Non costo poi molto. 
Non ho mai chiesto molto.



17.3.13

Bhe, io sono ancora qui. 
Persa. 
Poi quasi ritrovata. 
E' strano quanto io sia cambiata dalla pubblicazione dell'ultima foto lì sotto. 
Il nonno se n'è andato a Ottobre. Il mese in cui era nato. 
Ha lasciato le pantofole sulla porta e il verderame in giardino, lì sotto alla pianta di kiwi. Kiwi che nessuno ha raccolto. Nessuno li ha messi nelle cassette a maturare come faceva lui. Il nonno Sirio. 
La nonna, è dimagrita. E' la metà di quella donna lì svogliatamente sdraiata. E non sa più chi sono. Eppure mi ha quasi cresciuta lei che mia madre era una ragazzina quando sono nata io. Non sa più chi sia quella bimba bionda in mezzo ai miei nonni lì sotto. 
Quella bimba che forse un po' bimba in un certo senso non è più. A 8 anni ha perso il bisnonno. Che le faceva i dispetti e le faceva miagolare il gatto. E ha perso la nonna. Eppure non è morta. Si è "solo" svuotata. E questo una bimba non può capirlo. 

E io non sono più la stessa. 
Lui non c'è più. 
Loro non ci sono più.  
Tanta gente non c'è più. Ne è subentrata altra. 
E io ferma lì in mezzo, guardo. 
Cerco di vedere, non solo guardare, intorno a me e dentro me. 
Ma quando lo faccio mi spavento. 
Si appanna tutto. 
Saranno le lacrime. 
Fumo negli occhi. 
Nebbia. 
Però che belli quei fuochi fatui. 
Anche se sotto nascondono una voragine. 
Ma che paura vuoi che faccia a me una voragine nera quando io ne porto una dentro da tutta la vita?