C'è una scalinata di marmo bianco.
Gradini bassi. Bianchissimi. Venature GrigioSquame.
Smussata. Levigata come la pelle di un'anguilla. E' quasi uno scivolo. Quasi trasparente come la testa di una medusa.
Eppure così stabile, con le sue fondamenta piantate salde come radici di quercia nel lago nel quale affonda.
Gli ultimi gradini, bianchi, come l'interno di una conchiglia, sono lambiti dolcemente dall'acqua.
Io, sempre seduta lì a metà.
Osservo chi, passando, la scala nemmeno la nota.
Osservo chi le dà un'occhiata fugace mentre rallenta appena passando, ma colto dalla paura va oltre.
Guardo e spero che chi fa qualche gradino scenda un po' più giù e mi raggiunga. Ma la scala è pericolosa.
Molti tornano semplicemente indietro.
Spero che chi invece si è fermato un pochino più in là faccia uno sforzo e si avvicini.
Ma raramente accade.
E poi guardo chi con grande coraggio è arrivato fino in fondo. Magari scivolando due o tre volte.
Per arrivare a metà so bene quanto mi sia fatta male. Quanti lividi.
Equilibrio precario e respiro compresso mentre cerco di trovare la concentrazione per scendere e finalmente mettere i piedi in quegli ultimi gradini baciati dall'acqua. E finalmente tuffarmi. Testa in giù. Fino al fondo.
E poi risalire.
Ma ancora non ce l'ho fatta.
Quindi guardo ammirata chi in acqua c'è già.
Chi ci è arrivato a caro prezzo.
Chi ci è arrivato e non solo è già in acqua e potrebbe nuotare libero, ma chi va sott'acqua e cerca di tirare su chi si è stancato.
Lo guardo risalire in superficie e respirare così forte che i suoi polmoni bruciati li sento io.
Lo guardo risalire e aprire a malapena gli occhi gonfi e turgidi.
Lo guardo mentre l'acqua apre una piccola voragine vorace e nera e se lo inghiotte.
E non lo vedo più.
Lì sotto con ogni muscolo teso fino a spezzarsi e saltare come la corda di una chitarra, ha preso il viso di lei fra le mani e la bacia. Le dona l'ossigeno che a grande fatica è andato a prendersi.
Lei rinviene e quando finalmente sgrana gli occhi c'è riconoscenza in essi. Ma solo un'attimo. Poi c'è stupore, quasi rimprovero, perchè ossigeno non ce n'è più. Lui non ne ha più.
E torna su. Ma il corpo è sempre più stanco. Le braccia fanno male.
Non solo perchè non riesce più a nuotare, ma anche perchè sono vuote. Vuote perchè sott'acqua non riesce ad abbracciarla come vorrebbe. Non si può. Sarebbe impossibile. Andrebbero tutti e due giù per sempre. E quell'ultimo abbraccio li vedrebbe sul fondo del lago, così belli, fatalmente sereni adagiati uno sull'altro sul fondale sabbioso in quell'ultimo abbraccio mortale.
Ma forse lei un'abbraccio non lo vuole più. Forse vuole solo ossigeno. Perchè in superficie lei non riesce a risalire.
Ma lui sì.
E continuerà a fare su e giù, costante e tenace perchè le cose le sa fare solo così.
E' meraviglioso però quando lo fa. Io lo sto guardando. Su e giù. Ritmico e ipnotico. Sono così belle e forti quelle braccia. E' così meraviglioso sentirlo mentre riprende aria. Brucia di vita lui. I cerchi concentrici che genera quando risale hanno origine da millemila punti elettrici sul portaspilli del suo cuore.
Io mi incanto a guardarlo.
Ammiro il suo coraggio.
E sorrido.
Ma con le lacrime.
Quanto ancora riuscirà a fare su e giù?
Fino a quando?
Inizio ad avere il terrore di non vederlo risalire più.
Inizio ad avere paura di non sentirlo respirare.
Inizio ad avere paura che lei lo trascini semplicemente giù quando deciderà che ossigeno non le serve più.
Io vorrei alzarmi dal mio gradino qui a metà.
Una canzone in testa. Occhi puntati verso l'acqua scura e densa.
Io scendo.
Forse se entro in acqua e respiro da sola capirà che nel lago si può anche nuotare insieme per un po'.
Ognuno coi suoi polmoni e il suo cuore, ma allo stesso tempo, allo stesso ritmo.
E un pezzetto di costa potremmo esplorarlo insieme. O forse no.
Ma ti prego.
Non andare più giù a dare ossigeno a chi forse nemmeno lo vuole.
Ti prego, allontanati.
Seguimi.
Da dentro a "Howard" dei June Miller.
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