Quando ero libera.
Saltavo in macchina, accendevo la radio, chiudevo lo sportello, inserivo quella chiave che si incastrava così armonicamente, e la giravo con quella piccola rotazione del polso che innescava l’inizio della mia liberazione.
Lasciavo che i chilometri scivolassero via, uno dopo l’altro. I numeri che rollavano nel contachilometri come piccoli segnetti cuneiformi. Mi scagliavo verso “versovunque”.
Dirsi che tra tre canzoni giri e magari torni sulla strada di casa, e poi dirsi, no ancora fino alla fine dell’album. E magari il prossimo ancora.
Fluiscono liquidi e lisci i chilometri. Lascio una scia di errori, rimproveri, frustrazioni, insoddisfazioni, rabbia, impotenza e noia dietro di me come fanno gli aerei nel cielo.
Mi dirigo verso il mio prossimo “ovunque”, e non mi interessa arrivarci, l’importante è stato partire.
E girare la macchina. E girati le spalle, girarvi le spalle, girarmi le spalle.
E andare via. Versovunque, nel mio cielo d’asfalto. Le righe bianche, i miei gabbiani silenziosi.
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