Come quando da piccola facendo su e giù sull’altalena, ti trovavi nel punto di oscillazione massima, e c’era quella frazione di secondo durante la quale eri come fermo immobile, prima di precipitare indietro o scaraventarti avanti.
Come quando da grande, guidando velocemente su un piccolo dosso, su velocemente, giù velocemente, c’è quella frazione di secondo durante la quale lo stomaco sale in gola e lì sotto alle costole sembra non esserci nulla. Solo quel vuoto opaco, irreale e polveroso di un raggio di sole che illumina un fondale marino.
Quei momenti strani in cui trattieni il respiro, sgrani gli occhi, il cuore batte fortissimo e ti assorda le orecchie perchè qualcosa di grosso sta per accadere. O forse proprio un bel niente sta per accadere e quell’eccitazione non è dovuta all’aspettazione, ma al terrore che quell’euforia si tramuti in avvilimento, in uno schermo piatto, in una frequenza radio vuota con quel destabilizzante rumore statico. La paura che la speranza si tramuti solo in noia. O peggio, in delusione.
Quei piccoli vuoti. Quei piccoli buchi neri. Quelle piccole mancanze. Grattano la pancia. Prudono i palmi delle mani. Si avvinghiano alla gola. Bruciano sotto pelle.
Ma ti fanno sentire viva. Viva come non credevi avresti mai potuto essere. Così viva da farti male. Se questo è essere vivi, io voglio stare male per sempre. Per sempre.
“…c’è un giardino di acacie, di catalpe, e di pergole dolci di viti -
là quel pomeriggio di giugno al fianco di Mary -
baciandola con l’anima sulle labbra d’un tratto questa mi fuggì.”
- E.L. Masters
là quel pomeriggio di giugno al fianco di Mary -
baciandola con l’anima sulle labbra d’un tratto questa mi fuggì.”
- E.L. Masters
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