IO ALLA FINE NON SO COSA SIA UNA BELLA FOTO.SO SOLO CHE VEDO COSE E LE DEVO FERMARE.E CHE A VOLTE HO QUALCOSA DA DIRE.ALTRE VOLTE, NO.


22.3.12

Quando uscivo dal lavoro a Londra e mi ritrovavo sulla piattaforma della tube di Oxford Circus diretta a King’s Cross St.Pancras dove avrei cambiato la Victoria Line per la Piccadilly diretta verso il mio monolocale a Holloway Road, ero sempre colta da troppe sensazioni. Mi piaceva tanto quella ressa. Forzava tutti questi corpi a stare vicino, a contatto, forzava intimità su persone che non avevano nemmeno il coraggio di guardarsi negli occhi. Mi piaceva sentire il calore che si sprigionava, che pervadeva ogni millimetro intorno a noi. Mi piaceva vedere così tanti volti dalle stutture ossee più diverse, i vari tipi di zigomi, le forme diverse degli occhi, i colori, dai più trasparenti e vitrei a quelli più scuri, quelli neri come il nero del cielo di notte, le labbra dalle più sottili a fessura a quelle più morbide, sfumature della pelle che non sapevi esistessero, perchè l’amore non ha confini e le creature più belle sono spesso frutto di amanti dai cammini di vita più diversi. Mi piaceva vedere i capelli. Tutti i colori, naturali o artificiali. Mi piaceva vedere i capelli fini delle tipiche inglesi, di quel castano ramato e caldo. Mi piaceva vedere i capelli biondissimi delle Scandinave. Mi piaceva vedere il crespo del capello africano o caraibico e sognavo sempre di tuffarci le mani. Sognavo di accarezzare i lunghi capelli neri delle Indiane, neri e lisci come il mare in una notte di estate. Corpi dalle forme più diverse, muscoli che si sviluppano in modo diverso. Mi piaceva guardare le unghie delle persone, mi piace ancora farlo, ammirarne le diverse forme geometriche. Mi piaceva vedere quanto erano affusolate le dita.
Tutti diversi. E tutti uguali: tutti affamati, tutti stanchi, tutti sbadiglianti, tutti sospiranti, molti ciondolavano la testa per riuscire a dormire 10 minuti, molti leggevano e io spiavo sempre. In quel mare di estranei, di sconosciuti conosciuti, io mi sentivo a casa. Adoravo il tragitto. Adoravo stare con “loro”. Tornare in superficie mi spaventava sempre. Là fuori c’era il pericolo vero avevo scoperto.

Però allo stesso tempo, a volte mi sentivo soffocare. Avrei voluto poter respirare senza essere notata. Avrei voluto cacciare un urlo e far sparire tutti magicamente per poter sentire il mio cervello pensare. Tutta questa gente che mi toccava, mi sfiorava, si strusciava, mi respirava addosso, mi sbadigliava addoso, mi piantava gli occhi addosso, mi guardava, cercava di leggermi il badge, mi inquietava.

Credo di sentirmi un po’ come sulla piattaforma della Victoria Line a Oxford Circus.
Sono contenta di essere. Di esserci. Di essere riuscita, almeno superficialmente a connettere con altri esseri umani. Soprattutto i bambini. Chiaccherare con sconosciuti è sempre una cosa che adoro fare. Mi piace scoprire. Mi piace scoprire che quel che non conosco non è una minaccia, ma tutt’altro. Che dietro un viso serioso si nasconde chi non vede l’ora di fare amicizia. Questo mi è stato insegnato da chi ha avuto la pazienza di puntellare il mio muro e farlo crollare dalle fondamenta, sistematicamente, organicamente, spontaneamente. Anche questo è un dono che ho ricevuto. Così.
Aver imparato a dare fiducia a chi se l’è meritata e guadagnata, mi ha aiutata a dare fiducia ai più. Alla folla intorno a me sulla piattaforma.
Li voglio, certo, due minuti per me. Ma tutto sommato, sulla piattaforma ci sto bene.

Sorrido.
E aspetto il mio treno.

Il led come sempre dice che il mio è in arrivo tra due minuti.

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